Ruggerio Zanin: Un esperimento, ovvero recensione incrociata e ragionata di:

La scuola si è rotta di Francesco Antinucci 

e di Segmenti e bastoncini di Lucio Russo

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febbraio 2002

 
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Esperimento o istanza cruciale: prendere due o più diverse teorie che spieghino lo stesso fenomeno e incrociarle tra di loro per verificare se almeno una di esse sopravvive allo scontro.

Io ho provato a fare un esperimento di questo tipo con due libri che parlano di scuola secondo prospettive assolutamente opposte: il primo è quello di Francesco Antinucci intitolato La scuola si è rotta[1], il secondo il già famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo[2]. Si tratta di due brevi saggi “da combattimento”, di pamphlet molto leggibili e godibili, che vanno letti tutto d’un fiato senza badare se certe affermazioni appaiono esagerate o poco giustificate dal punto di vista rigorosamente scientifico. Il libro di Antinucci (che, in questa disputa, riveste il ruolo di “rivoluzionario”), essendo più recente, conosce e discute quello di Russo (che rappresenta invece la parte “conservatrice”), il quale evidentemente non può replicare – cercherò di farlo io al suo posto.

    La scuola si è rotta è un titolo che ben sintetizza l’idea di un passaggio epocale che la scuola (almeno quella italiana) non è in grado di affrontare, rimanendo essa invischiata in un tradizionalismo che la condanna a sterili schermaglie di retroguardia (quali discipline insegnare, quali saperi, quali metodi, ecc.). In pratica, pur riconoscendo la crisi profonda che sta attraversando, la scuola cercherebbe di operare aggiustamenti di facciata, senza avvedersi che in realtà è venuta meno la “condizione fondamentale” del suo essere quello che è (nonché “la ragione principale del suo successo” nel corso dei cinque secoli precedenti), e cioè quell’assunto assiomatico secondo cui “un sistema di apprendimento diffuso e generalizzato si può fondare solo sulla modalità simbolico-ricostruttiva.” [Antinucci, p. 65] Oggi, invece, siamo nelle condizioni (condizioni essenzialmente tecnologiche) di ritornare a un apprendimento di tipo “percettivo-motorio”, che una volta era di esclusivo appannaggio di una esigua minoranza (si pensi agli apprendisti delle antiche botteghe artigiane), ma che adesso può diventare di massa. Nelle parole di Antinucci: “ridiventa possibile praticare il modo esperienziale di apprendimento senza quelle limitazioni di accesso che ci hanno spinto ad abbandonarlo in favore del modo simbolico-ricostruttivo.” [p. 74]

Ora, siccome la questione è importante, è bene intendersi sulle parole e sui concetti di fondo. Per apprendimento di tipo “simbolico-ricostruttivo” (“decodificare simboli e ricostruire nella mente ciò a cui essi si riferiscono”) si intende quello incentrato essenzialmente sul libro, e basato sullo sforzo di leggere, interpretare, capire e mandare a memoria per poi ripetere. È un tipo di apprendimento lungo e difficile perché “innaturale”, cioè esclusivamente “mentale”, astratto, di totale e assoluta “concentrazione”. Quello “percettivo-motorio” è invece un tipo di apprendimento “naturale” e spontaneo, basato su “cicli ripetuti di percezione-azione”, praticato attraverso esperimenti e prove, in genere sotto la guida di un maestro che, più che dire, “mostra” come fare. In sintesi: “il sistema percettivo-motorio, proprio perché più adattato, opera in modo più naturale e spontaneo: non ha bisogno di consapevolezza, non richiede concentrazione, non ci fa fare fatica, non ci stanca ed è molto più veloce.” [pp. 15-16]

È fondamentale capire che, nella concezione dell’autore, queste due modalità di apprendimento non ritagliano affatto due ambiti disciplinari differenziati (che ne so, da una parte le scienze teoretiche, dall’altro quelle pratiche), ma rappresentano una radicale alternativa nell’acquisizione del sapere in quanto tale. Ma perché mai il modo di apprendimento percettivo-motorio, tanto migliore sotto tutti i punti di vista, è stato sopravanzato e pressoché totalmente sostituito da quello simbolico-ricostruttivo? È presto detto: “il sistema basato sull’apprendimento percettivo-motorio è molto limitato relativamente al numero delle persone che si possono formare.” [p. 23] È successo così che, quando è apparsa la stampa a caratteri mobili, la diffusione dei libri è diventata tanto capillare e conveniente da rendere concorrenziale e alla lunga preferibile l’insegnamento basato sulla modalità simbolico-ricostruttiva.

Oggi, però, le cose sono cambiate in modo radicale e le nuove tecnologie multimediali (soprattutto il computer) permettono strategie di apprendimento di tipo percettivo-motorio senza limitazioni di sorta e alla portata di tutti. Tutto d’un tratto, possiamo dire, la civiltà del libro appare vecchia e superata: “così come la stampa fa copie del testo utili a essere lette e la televisione fa copie della realtà utili a essere percepite da vista e udito, il computer fa copie della realtà utili ad agirci sopra.” [p. 71] È evidente come, almeno agli occhi delle generazioni più giovani, non esistano esitazioni nello scegliere la gerarchia degli strumenti di apprendimento. E la scuola? Dice Antinucci: “la scuola è un’organizzazione funzionale al modo di apprendere simbolico-ricostruttivo e alla tecnologia che lo supporta (…): modo di apprendere, supporto tecnologico e organizzazione strutturale della scuola formano un organismo fortemente integrato. Essi sono interdipendenti: non è possibile modificarne uno senza modificare gli altri.” [pp. 31-32] Ciò significa che, o la scuola riuscirà in breve a operare una vera e propria rivoluzione copernicana trasformandosi completamente per aderire alle nuove modalità e tecnologie di apprendimento, oppure, “travolta, sparirà.” [p. 90]

    Altrettanto apocalittica è la visione di Lucio Russo, ma di segno contrario rispetto a quella di Antinucci: in questi ultimi tempi – secondo Russo – si starebbe realizzando (e poco importa, mi pare, il nome del ministro responsabile, se Berlinguer o Moratti) “il progetto, coerente e organico, di smantellare quanto resta della tradizionale scuola secondaria superiore italiana, sostituendola con una moderna ‘scuola per consumatori’ che, seguendo il modello della scuola americana di massa, si limiti ad avviare al consumo il cliente-studente fornendogli prodotti massificati e dequalificati, ma gradevoli e rassicuranti.” [Russo, p. 88] Ma perché si parla di “scuola per consumatori”? Spiega Russo: “La grande maggioranza degli studenti della nuova scuola finirà semplicemente con l’assumere l’uno o l’altro degli infiniti ruoli di mediazione tra produzione e consumo nati per alimentare il mercato distribuendo in rivoli minimi parte della ricchezza che sgorga da poche sorgenti lontane e inaccessibili. Le capacità e le competenze richieste per tali ruoli sono minime e diminuiscono di anno in anno. Le continue ondate di innovazione tecnologica, che immettono nel mercato prodotti sempre nuovi, spesso basati su tecnologie raffinate, richiedono in compenso masse di consumatori ‘evoluti’, attenti cioè alle novità, capaci di mutare continuamente le abitudini di consumo, abbastanza ‘colti’ per recepire rapidamente i messaggi pubblicitari e leggere manuali di istruzioni (…). In definitiva la nuova produzione, concentrata e automatizzata, richiede più conoscenze ai suoi clienti che ai suoi dipendenti. La nuova scuola deve quindi preparare soprattutto consumatori, oltre che contribuenti ed elettori.” [pp. 18-19]

Quale sarà il metodo di apprendimento seguito in questa nuova scuola? Presto detto: “Gli strumenti concettuali teorici, considerati ormai troppo difficili, sono eliminati dall’insegnamento, che viene ridotto alla descrizione di meri ‘fatti’ e a elenchi di prescrizioni.” [p. 20] A questo punto comincia a delinearsi abbastanza chiaramente la contrapposizione con la tesi di Antinucci, contrapposizione che diventa immediatamente evidente allorché Russo viene a parlare delle innovazioni tecnologiche nella nuova scuola: “le funzioni tradizionali degli insegnanti tendono a essere svuotate da tecnologie didattiche centralizzate e impersonali, grazie a lezioni televisive, videocassette, ‘ipertesti interattivi’ e altri prodotti ‘multimediali’. Le attuali tecnologie, permettendo sia una percezione più ricca e piacevole di ‘fatti’, sia una maggiore autorevolezza nell’impartire insegnamenti prescrittivi, sono in effetti insuperabili nella comunicazione unidirezionale e acritica caratteristica della nuova scuola per consumatori.” [p. 23] Questa è la scuola dei bastoncini, contrapposta a quella tradizionale dei segmenti, in cui “studiando la geometria euclidea ci si abitua (…) a usare ‘enti teorici’, analizzabili con rigore, per descrivere utilmente oggetti concreti, senza confondere gli uni con gli altri.” [p. 27] Nella nuova scuola, invece, “le sostituzioni di segmenti con bastoncini cominciano ad avere effetto, convincendo gli studenti dell’inutilità degli enti teorici.” [p. 32] E non mi sembra una gran forzatura assimilare il metodo dei bastoncini alla strategia di apprendimento di tipo percettivo-motorio di cui parla Antinucci e quello dei segmenti al modo di apprendere simbolico-ricostruttivo.

Siamo all’ennesima riproposizione della classica contesa tra antichi e moderni? In realtà Russo non è affatto un detrattore delle moderne tecnologie. Egli piuttosto dice: “Le immagini (e, più in generale, le tecniche multimediali) possono svolgere un ruolo essenziale nell’allargare il mondo dell’esperienza individuale e vanno quindi certamente utilizzate nell’insegnamento. Dobbiamo però scegliere se continuare a usare la razionalità per analizzare, criticare, scegliere e in alcuni casi costruire il mondo sempre più ricco e complesso delle realtà potenzialmente percepibili oppure limitarci a subirlo come consumatori passivi.

Nel primo caso occorre attrezzarsi con strumenti concettuali tanto potenti quanto è richiesto dalla complessità della nuova tecnologia. Solo nel secondo caso possiamo scegliere di sostituire le immagini (e le realtà virtuali) ai messaggi verbali, accettando la deconcettualizzazione e il crollo della capacità critica che necessariamente accompagna l’indebolimento degli strumenti linguistici.” [p. 46]

Mi fermo qui, sia perché ritengo di aver riassunto l’essenziale sia perché mi pare di aver messo in campo sin troppi elementi di discussione. Adesso l’esperimento prevederebbe di tirar le somme e di verificare cosa, dallo scontro delle due tesi avverse, sia andato distrutto e cosa sia rimasto in piedi. Dico subito che la posizione più “debole” (ma solo dal punto di vista educativo, per quel che importa) mi pare quella sostenuta da Antinucci; ma con questo non voglio affatto parlare di un trionfo della tesi di Russo. Anzi, se devo essere sincero, chi difende il partito dei segmenti mi sembra assomigli a uno di quei soldati che, a guerra ormai persa, si ostinano a difendere le posizioni loro assegnate, invece di darsi alla guerriglia, alla guerra non convenzionale, alla guerra di resistenza. Immaginare la tecnologia multimediale un semplice strumento da utilizzare, ma nulla di più, significa non avvedersi che questa tecnologia è un cavallo di Troia capace di portare dentro le mura della razionalità classica, una mentalità e un modo di pensare del tutto nuovi e diversi. L’alternativa però non è tra il rifiutare ogni rapporto o l’arrendersi senza condizioni: ai partigiani della lotta per i segmenti propongo invece un esercizio di ginnastica mentale, così formulato da Fredric Jameson, studioso del postmoderno: “fare (…) uno sforzo per pensare l’evoluzione culturale del tardo capitalismo dialetticamente, come catastrofe e insieme come progresso.”[3] Tradotto in soldoni: bisogna accettare contaminazioni, ricercando i compromessi più favorevoli.

E, d’altra parte, mi chiedo come sia possibile altrimenti – a meno di non avere un’immagine “settaria” della scuola – avvicinare i giovani a un pensiero alto, difficile, concettuale com’è quello della razionalità scientifica, sapendo che le nuove generazioni per lo più rifuggono da modelli di linguaggio proposizionali, articolati, gerarchizzati, sequenziali, affidandosi invece a forme espressive non-proposizionali, allusive, destrutturate…[4] A chi per nascita non appartiene alle generazioni postmoderne (chi è nato prima degli anni ’70 del Novecento) appare inconcepibile la marginalizzazione del libro nella vita e nella cultura dei ragazzi d’oggi; eppure questa è la situazione, che non può essere certamente cambiata a colpi di prescrizioni o di richiami all’importanza della tradizione letteraria e scientifica. Anzi, giustamente Daniel Pennac[5] indica come primo diritto imprescindibile del lettore quello di non leggere. Si dirà che questo è il diritto all’ignoranza. Forse; ma d’altra parte, per fare solo un esempio, nella nostra civiltà ormai nessuno si scandalizza più di tanto della quasi assoluta mancanza di cultura religiosa. E forse sarebbe ora di ridare al pensiero “superiore” – intendo quello critico, simbolico, astratto – il senso e il sapore dell’avventura e della conquista, levandogli di dosso un bel po’ di polvere scolastica.

Ma perché, allora, non passare integralmente al metodo proposto da Antinucci? Per diversi motivi, io credo, e qui cercherò di sintetizzare quelli che considero i principali. Voglio però, preliminarmente, togliere di mezzo ogni possibile sospetto di avversione pregiudiziale. Anch’io, come Antinucci, sono un estimatore (per quel poco che ne conosco) del pensiero di Seymour Papert e trovo assolutamente condivisibili gli assunti fondamentali che stanno alla base della sua “Geometria Turtle”: “il primo è lo sviluppo di una matematica in sintonia con l’io, anzi, di una matematica in sintonia con il corpo; il secondo è lo sviluppo di un contesto per il lavoro matematico in cui la dimensione estetica (…) è posta continuamente in primo piano.”[6] Io credo però che la proposta di Papert possa essere pienamente apprezzata soltanto all’interno di una concezione evolutiva dell’apprendimento della matematica e in contrapposizione a certi eccessi formalistici della matematica accademica. Peraltro non posso dimenticare come proprio Papert – mi pare nel corso di un’intervista televisiva – abbia posto l’attenzione sull’uso scriteriato dei giochi di guerra al computer che abituerebbero (o addirittura addestrerebbero) i bambini a “sparare” su qualsiasi cosa si muova sullo schermo, senza fermarsi a pensare. Ecco, io credo che proprio questo sia il rischio maggiore della nuova tecnologia: l’essere predisposta per una fruizione immediata e, dunque, scarsamente ragionata.

Il metodo percettivo-motorio può anche essere molto più efficace dal punto di vista dell’apprendimento[7], ma il rischio è proprio quello indicato da Russo di costruire dei semplici “consumatori”, privi di coscienza critica e di vera capacità di discernimento. O anche, come dice Fernando Savater[8], degli “Idioti Abbastanza Preparati” (I.A.P.), del tutto incapaci di assolvere i compiti e le attribuzioni richiesti a un cittadino consapevole e maturo. Chi confonde la vera realtà con quella raccontata nelle fiction televisive può facilmente essere convinto a votare qualsiasi progetto e qualsiasi persona, purché abbiano un buon numero di “passaggi” televisivi. Chi vive una parte significativa della propria giornata in atmosfere “virtuali” può anche confondere le strade della propria città per lo scenario di un videogame. Si dirà che la scuola deve proprio insegnare la differenza tra medium e messaggio, tra virtuale e reale; ma questo è un compito che può essere affidato solo al modo di apprendere simbolico-ricostruttivo, il quale, come dice Antinucci, è molto più lungo e faticoso di quello percettivo-motorio. Rischiamo così di crescere ottimi esecutori, ma scarsamente responsabili.

Il vero limite della posizione di Antinucci è quello di avere attenzione, rispetto al sapere, esclusivamente per termini quali “utilità”, “efficacia”, “efficienza”; non parla mai di “verità”. Ora è del tutto evidente che la scuola (una scuola che sia realmente pubblica e pluralista) non deve né può insegnare la verità (la verità di chi?); ma è per me altrettanto evidente che solo un sapere che abbia cura e attenzione per la verità può essere considerato “veramente” educativo. Ricordo lo sfogo di un vecchio filosofo della scienza, Giulio Preti: “Contro una cosa devo qui, subito, chiaramente e decisamente protestare: contro l’identificazione della scienza con la tecnica – contro questa colpevole, ignobile, castrazione della scienza e del suo altissimo significato teoretico.”[9] E l’abissale differenza tra scienza e tecnica sta nel fine che ciascuna persegue: la verità per la scienza, l’efficacia per la tecnica. Insomma, per usare una metafora classica, rinunciare al pensiero critico, al pensiero simbolico (e direi anche al pensiero poetico), sarebbe come condannare i giovani a vivere esclusivamente nella caverna platonica, negando loro a priori qualsiasi via d’uscita.

Cosa resta in piedi, alla fine dell’esperimento? Molto poco, forse solo l’esigenza di non perdere quella dimensione di “spessore”, di “profondità” che la tradizione pedagogica occidentale ha sempre perseguito. Certo,  dei modelli classici non restano che trame, citazioni, strutture parziali, ricomponibili secondo alchimie varie e differenziate. Ma questo, ragazzi, è il postmoderno! L’alternativa è discendere la china verso cui ci spinge lo spirito dei tempi: una società fatta soprattutto di abili consumatori di tecnologie e di I.A.P., dietro i quali agisce una ristrettissima élite di detentori del vero sapere, dei livelli più profondi della conoscenza.

 



[1] Francesco Antinucci, La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 109.

[2] Lucio Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, nuova edizione 2000 (I ed. 1998), pp. 138.

[3] Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, trad. di Stefano Velotti, Milano, Garzanti, 1989 [tit. orig.: Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, 1984] p. 89.

[4] Cfr. Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Laterza, 2000.

[5] Come un romanzo, trad. di Yasmina Melaouah, Milano, Feltrinelli, 1993 [tit. orig.: Comme un roman, 1992]

[6] Seymour A. Papert, “L’inconscio matematico”, in Judith Wechsler (a cura di), L’estetica nella scienza, trad. di Ottavio Fatica, Roma, Editori Riuniti, 1982 [tit. orig.: On aesthetics in science, 1978], p. 143.

[7] Un primo passo nella direzione indicata dal film Matrix di Andy e Lerry Wachowski, in cui si prevede di immettere via computer, direttamente nel cervello, saperi molto vasti e complessi in pochi secondi.

[8] “Che cosa imparano i giovani Idioti abbastanza preparati”, in La Stampa, 21/1/2002.

[9] Giulio Preti, Retorica e logica. Le due culture, Torino, Einaudi, 1974 (I^ ed. 1968), p. 17.

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